Cadono sul silenzio le parole. Tutte le parole. Quelle buone e quelle cattive. Il grano e il loglio. Ma solo il grano dà pane.
José Saramago
La scrittura come strumento privilegiato di ricerca del sé emerge con particolare forza nel lavoro di José Saramago. Il suo stesso approccio alla scrittura è sempre stato, infatti, quello intimamente profondo e costantemente attivo della sperimentazione e dell’indagine. Passando attraverso molteplici e differenti generi di scrittura – la poesia, la cronaca, il romanzo, il racconto, il testo teatrale, le memorie – lo scrittore portoghese sembra essere sempre alla ricerca di qualcosa, e quel qualcosa non può che essere sé stesso, o meglio la forma perfetta in grado di poter esprimere in maniera più autentica il suo proprio sé.
Scrivere è, dunque, un tentativo di fare emergere quanto di più profondo c’è nella propria Anima, ma è nel corso della scrittura stessa che quell’Anima stessa si disvela, si mostra, si palesa e si arricchisce. Da una forma di scrittura all’altra, da un testo all’altro, si delinea un vero e proprio viaggio interiore che evolve e si perfeziona sempre più, senza tuttavia mai arrivare a una battuta di arresto. Una metafora di questa continua fluttuazione di modi di espressione è colta magistralmente in Manuale di pittura e calligrafia, dove si narra di un pittore che si ritrova a dover abbandonare l’arte figurativa in favore della scrittura e dove, appunto, si può cogliere tutta la sfida di rendere le immagini mediante le parole e di rispondere alla propria vocazione di intima ricerca interiore attraverso una modalità espressiva diversa.
Tuttavia, è da sottolineare come Saramago non cerchi semplicemente se stesso come scrittore, ma soprattutto ancor prima se stesso come uomo: la fluttuazione tra generi corrisponde, intimamente, alle mille possibilità dei diversi percorsi dell’Anima. Essere in grado di utilizzare la scrittura come strumento di ricerca significa, infatti, essere pronti a mettere in gioco interamente se stessi come individui: solo così si risponde davvero a quella vocazione verso la scrittura che non si limita a camminare sulla patina scivolosa degli eventi. E questa è una sfida di fronte alla quale non poteva tirarsi indietro Saramago, per il quale la distinzione tra uomo e scrittore, in fondo, non era stata mai possibile in partenza. In un discorso tenutosi a Milano nel 2009, lo scrittore ebbe a dire:
Lo scrittore, prima di diventare tale, era un cittadino e non ha nessun senso che nel momento in cui comincia a scrivere dimentichi di esserlo. Io, almeno, non posso. Non sono uno, sono due, sono tre: sono il cittadino che sono, sono lo scrittore che sono, sono le due cose insieme.
Saramago scriveva delle circostanze che viveva, delle emozioni che concretamente sentiva, della sua vita e, in definitiva di sè stesso. Nella sua scrittura riversava completamente chi era come uomo e, allo stesso, quell’identità la andava ancora ricercando e componendo. Proprio l’identità umana è, in effetti, il fulcro e il file rouge delle sue opere. Chi è l’uomo nel profondo? Cosa è nascosto nella sua Anima? Queste domande ricorrenti diventano ancora più personali quando la sua Scrittura assume la forma dell’autobiografia. Chi sono io? Chi sono stato? Cosa c’è nella mia Anima? Lo scrittore non rifugge questo interrogativo, anzi, se nei suoi romanzi l’identità è una tematica da toccare in una cornice funzionale suggestiva, scavare in se stesso diventa l’obiettivo primario quando sceglie di scrivere delle memorie, cercando se stesso nei luoghi privati più lontani del tempo e riscrivendo la sua personale storia di vita a partire dall’infanzia, nell’ottica di un autentico storytelling dell’Anima.
Il bambino che siamo stati, con la sua ingenuità e meraviglia originaria di fronte al mondo non va mai eliminato, anzi va conservato, e la sua riscoperta è il primo passo per ricomporre autenticamente il Sé più profondo, a torto dimenticato e perduto. Il suo invito è, dunque, quello di «procedere nella vita tenendo per mano il bambino che siamo stati, immaginare che ciascuno di noi dovrebbe essere sempre in due».
Tutto questo non può che riflettersi anche nella modalità specifica con cui Saramago scrive. Il suo è uno stile complesso e non sempre agevole, che segue il flusso di coscienza e rompe con le regole tradizionali della sintassi, ma è anche una scrittura libera, spontanea, viva e pulsante che sembra sfuggire perfino dalla pagina e trasformarsi in voce. In definitiva, si tratta di una prosa profondamente umana, scritta dall’uomo per l’uomo, non soltanto nel contenuto ma anche nella forma che compiutamente insegue e accompagna quella ricerca di identità. Alessandro Baricco ha colto in maniera eccellente questo elemento chiave della scrittura di Saramago, che corrisponde appunto alla dinamica del costante dialogo interiore che riesce a perdurare, a scavare interiormente, anche attraverso delle parole rese immutabili dall’inchiostro:
La scrittura di Saramago è un continuo tentare di tornare al di qua della scrittura, dove ancora risuona il cadenzare caratteristico del racconto orale. In tale racconto giocava un ruolo decisivo la componente sonora della voce, i suoi melismi, le sue cadenze e il suo respiro. Il narratore era tutto: sorgente e certificazione del narrato. La scrittura di Saramago tenta di recuperare quella autorità ricostruendone l’anima sonora.
La scrittura di Saramago è lo sforzo costante di porsi oltre la scrittura, di fare della scrittura qualcosa di più del semplice atto di raccontare una storia, è proprio un tentativo di andare al di qua della scrittura, dice bene Baricco, ma è appunto destinato a restare sempre questo: un tentativo, perché non approda mai a una risposta definitiva, continuando invece, instancabilmente, a porre domande – all’autore stesso e a ogni singolo attento lettore. Tuttavia, è proprio in questa mancanza di approdo che sta la sua potenza suggestiva e illuminante: è ricerca che invita alla ricerca, e che ancor prima mira a sfondare quella patina di ciò che resta in superficie e avvolto nell’apparenza. Con parole quanto mai vive, così scrive nella pagine finale di Cecità, il suo romanzo più famoso:
Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso; Palma, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
Riferimenti bibliografici
J. Saramago, Manuale di pittura e calligrafia, Feltrinelli, Milano, 2011.
J. Saramago, Cecità, Feltrinelli, Milano, 2015.
J. Saramago, Le piccole memorie, Feltrinelli, Milano, 2013. J. Saramago, Manuale di pittura e calligrafia, Feltrinelli, Milano, 2011.