Il mio gusto voleva confusamente un’espressione essenziale di fatti essenziali, ma non la solita astrazione introspettiva, espressa in quel linguaggio allusivo.
Cesare Pavese
Cesare Pavese è considerato da molti un autore unico nel panorama italiano per la sua particolare concezione di lirismo, che si riflette anche nelle sue opere. Introduce una novità nella letteratura del Secolo breve: si distacca dalla tradizione e dalla nozione classica di scrittura per intrecciarla al potere evocativo dell’immagine, con l’obiettivo di evocare in sé e nel lettore dei ricordi archetipici. Attraverso la narrazione riusciamo a ricostruire una sua mitobiografia, possiamo cioè riconoscere degli elementi trascendenti nelle sue storie che ci permettono di conoscere la sua forma mentis.
I disegni che Pavese ci ha lasciato sulle lettere e sugli appunti sono numerosi; ritraggono persone, paesaggi a lui cari, idee difficili da imprimere su carta ma che comunque hanno una forte portata immaginifica. Le immagini sono un altro modo in cui l’autore si racconta, confessando i luoghi vicini alla sua sensibilità e alla sua idea di bello. Oltre alle fotografie di un mondo ormai passato, Pavese ha lasciato ai posteri moltissime riflessioni sulla mitologia che amava, offrendoci anche una testimonianza del proprio mito.
La scrittura per Pavese non è un procedimento fisso, una narrazione statica e lineare, né è fatta solamente di parole impresse su carta; egli infatti introduce il concetto di “poesia-racconto”, rifiutando la concezione classica di lirismo per reinterpretarla, dando attenzione agli oggetti così come si presentano. Non c’è più la necessità di dare un significato all’oggetto o all’evento, perché il significato è intrinseco, e raccontandolo si espone alla comprensione profonda del lettore. Sottolinea, ne Il mestiere di vivere, la necessità di mantenere una “virile oggettività”: accanto a questa nuova poetica dell’oggetto si affianca appunto il potere evocativo delle immagini, per cui un certo oggetto, in una certa situazione, ha un certo significato che il destinatario può capire a livello inconscio ed emotivo. L’immaginazione non è solo astrattezza irragionevole, ma visione completa di un oggetto nella sua dimensione reale e fantastica, come due parti complementari. Anche negli appunti l’autore ci fa conoscere la definizione progressiva della poetica del racconto: lo stile proprio del Novecento, adottato anche nelle sue opere, è “un perenne farsi di vita interiore”, nel senso che l’evoluzione continua del rapporto tra la realtà e l’immagine – reale e simbolica al contempo – rende l’elemento fantastico. La fantasia è sia un modo in cui l’autore può capire i propri processi mentali (perché questa immagine ha questo significato per me? Perché non un altro?) sia per farsi conoscere a chi legge.
Mentre il mito è naturale, esiste dall’alba dei tempi come verità collettivamente accettata, la poesia per l’autore è invenzione: la narrazione di sé prende una forma nuova, un percorso ideale; la consapevolezza dell’età adulta si aggancia alla “coscienza mitica” che si ha da bambini. Secondo Pavese, “il narrare non è fatto di realismo psicologico né naturalistico, ma di un disegno autonomo di eventi, creati secondo uno stile che è la realtà di chi racconta, unico personaggio insostituibile”. Lo storytelling quindi viene ripulito di ogni astrazione forzata per far raggiungere al destinatario il fulcro, l’essenza della situazione narrata; lo scrittore racconta secondo la sua concezione di realtà, crea un collegamento empatico con l’altro, spezza il cerchio della solitudine e cerca un rapporto con la società intera.
Non è nemmeno più importante descrivere gli ambienti in cui si svolgono le storie: vanno vissuti attraverso la percezione che ne hanno i personaggi, e il personaggio principale e incostituibile è proprio lo scrittore. L’individuo, sia esso l’autore o il destinatario dell’opera, deve nell’ottica pavesiana aderire alla vita stessa dell’immagine, all’atmosfera e alle azioni, tutti elementi che non hanno un significato fisso ma che assumono un senso diverso ogni volta che qualcuno vi si identifica. Identificarsi significa proprio partecipare alla vita in fieri, e dunque ricercare il senso è anche ricercare il proprio senso, tentare di trovare se stessi.
Ora, lo studio e l’utilizzo della mitologia hanno proprio l’obiettivo di far riemergere la coscienza collettiva primigenia, quella che si nutre di archetipi junghiani, di menadismo e di τυχη; gli schemi narrativi fanno emergere delle immagini interiori che hanno un significato univoco per tutti, ma si riadattano all’esperienza individuale, alla visione odierna della vita. Ricercare il mito significa voler raggiungere il proprio senso che un certo archetipo attribuisce ad una situazione, ad un’emozione; gli studi di etnologia aiutano Pavese a ripulire il mito dalla sua parte divenuta stereotipica, per ottenerne la prima impressione. L’impatto che l’immagine poteva avere, e che egli stesso cerca di ricreare, deve restituire sia allo scrittore sia al lettore quel senso di meraviglia, di paura per ciò che non si conosce, in una parola quello che per i greci era δεινός, terribile.
“Il mito non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture”.
Il mito è un modo per essere viaggiatori, per avventurarsi alla ricerca di sé: le opere e lo stile di Pavese non voglio farci immedesimare in una certa situazione perché l’abbiamo vissuta, non vogliono farci riconoscere un paesaggio familiare: dobbiamo conoscere tutto questo direttamente con l’anima, dimenticando le categorie di spazio e tempo. Per riuscire a capire davvero l’opera di Pavese bisogna abbandonare ogni conoscenza oggettiva e immergersi nel mondo arcaico, inspiegabile e archetipico dell’immaginario collettivo, cercando quei miti che ci permettono di capire meglio noi stessi.
Riferimenti bibliografici
C. Pavese, Feria d’agosto, Einaudi, Torino, 2007.
C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino, 2020.