Una storia, per raggiungere il suo pieno effetto, deve essere raccontata; ci devono essere gesti, pause, false partenze sbagliate, confusione, svelamento e disvelamento, intreccio e disimpegno.[…] Conservarla tra fodere di stoffa e studiarla come se fosse un insetto morto è un movimento perso e uccide la creazione.
Henry Miller
Henry Miller è uno degli scrittori più conosciuti degli Stati Uniti, ma anche tra quelli maggiormente rinnegati dagli accademici; le sue opere hanno sconvolto la letteratura del Secolo Breve, unendo con orgoglio il concetto tradizionale di letteratura a contenuti espliciti, al tempo considerati totalmente inappropriati anche solo per la pubblicazione, e a uno stile unico, maturato sulla scia del surrealismo. I suoi scritti rivoluzionano la ricerca dell’io: Miller non tenta di conoscersi attraverso i personaggi che costruisce, né semplicemente raccontando di sé al lettore. Cerca invece di esplorare la sua identità attraverso procedimenti nuovi, influenzati anche dagli studi di Jung sull’inconscio e da scrittori con la sua stessa fama visionaria come Joyce; si sforza di raccontare sé stesso ma distorce comunque i fatti della sua vita, sia le sue riflessioni sia le esperienze materiali. È un tentativo di cercare la sua identità “al contrario”, affermando ciò che non è, creandone una diversa e impedendo al lettore di empatizzare con essa: racconta la sua anima ingannando il lettore più superficiale, e trascinando invece quello più attento in un vortice di sottigliezze psicologiche. L’identità funziona come una manifestazione della memoria, e solo attraverso una lunga e minuziosa dissezione delle proprie tracce storiche e della loro relazione con il presente Miller può raggiungere un grado sostanziale di autocomprensione.
Si vanta con l’amico e collega Edmund Wilson di non aver mai creato “eroi” per le sue storie e di aver scritto sempre in parallelo con la sua vita, ma nelle sue storie manipola il linguaggio, la realtà e la percezione del lettore, creando un’immagine di sé totalmente diversa da quella reale. Tutte le sue opere, gli acquerelli, le lettere all’amante Anaïs Nin dimostrano il tentativo, durato una vita, di creare una versione di sé totalmente rivista, mitologica e lirica, accompagnata da un lampante naturalismo che rende tutto più verosimile. Miller afferma che la scrittura è statica, è l’equivalente fisico di un libro rigido e immobile; la scrittura naturale è invece un “contatto diretto con la vita e la morte”, perché nasce con il libero flusso del pensiero e la creatività, è come lo pneuma (soffio vitale) in cui Anassimene riconosceva l’archè, il principio dell’esistenza.
È proprio questo tipo particolare di scrittura a facilitare una nuova forma di racconto: Miller rifiuta la classica narrativa lineare, da lui stesso definita “falsamente imitativa del vero ritmo della vita” a favore di una circolare, in cui digressioni e ripetizioni puntano ad un realismo psicologico più che fotografico, perseguendo l’obiettivo di una continuità emotiva e non fattuale. Attraverso l’atto della scrittura, Miller cerca l’ineffabile, sperando di riconquistare e cristallizzare i suoi stati mentali precedenti, così come di cogliere la loro importanza per il suo attuale stato d’animo. Poiché tale procedimento minuzioso costituisce necessariamente un confronto spirituale con sé stesso, a volte ripercorre gli stessi aneddoti, non cercando la ripetizione parole per parola, ma la risonanza emotiva.
Questo stile suona copioso e a tratti ridondante: ci sono alcune frasi, parole chiave o strutture ricorrenti che riportano all’origine dello storytelling, quello degli aedi che cantavano con una struttura circolare per non dimenticare la storia. Gli avvenimenti non sono raccontati in successione cronologica, ma in ordine soggettivo; le contraddizioni non mancano, sono incroci tra i vari punti di vista attraverso cui viene raccontata la storia. Si produce una “ermeneutica dell’Io”, già introdotta nella filosofia da Heidegger e Ricoeur come l’involontaria comprensione di sé stesso attraverso l’interpretazione: così Miller, scrivendo liberamente, libera la parte più profonda di sé, impara dalle sue stesse parole e strutture linguistiche e riesce a raccontare non solo una storia, ma indirettamente anche la sua storia, quella della sua anima e della parte più profonda della sua mente, la narra al lettore ma soprattutto a se stesso. Da post-freudiano, Miller conosce anche l’importanza dei sogni e delle fantasie, tanto che teneva un “libro dei sogni” in cui cerca di imprimere ogni sequenza di immagine, cogliendo il sé “nel suo processo del divenire”.
L’autore si interroga anche sulla necessità di una trama: decide che non è indispensabile, che un filo narrativo appena accennato è sufficiente, mentre quello che importa davvero è concentrarsi sull’esplorazione del proprio io. Ovviamente però la preoccupazione per la ricerca e lo sviluppo di sé devono fare i conti con la vita reale: non sfugge all’ansia culturale, come analizza la docente Priscilla Wald, notando che gli scrittori del tempo, per essere “psicologicamente sconvolgenti” dovevano esserlo anche formalmente. Ciò giustificherebbe le esagerazioni della struttura narrativa di Miller, che molti critici ritengono una mera forma irregolare e non un proprio stile. I continui singhiozzi delle opere però puntano al vero obiettivo dello scrittore, cioè quello di mettere il lettore a confronto con le convenzioni narrative che conosce, e che rendono comprensibile un’opera; solo abbandonandosi al disordine il lettore può vivere l’avventura che è la ricerca del sé, una sorta di purificazione dagli scritti che danno troppo per scontato e spiegano ogni passaggio, senza lasciare spazio all’interprete.
Infine come Miller, anche il critico letterario Pierre Macherey riconosce che alcune opere d’arte – come anche un’opera letteraria – funzionano come “catalizzatori per giungere ad un tipo di iper-coscienza che costituisce il vero obiettivo dell’artista”. Raccontare di sé, anche in maniera contorta e contraria come fa Miller, è quindi un espediente per portare il lettore ad un nuovo stato di comprensione, di accettazione archetipica dell’esterno, e di conseguenza anche dell’interno.
Riferimenti bibliografici
H. Miller, I libri nella mia vita, Adelphi, Milano, 2014.