Ho imparato che, per essere uno scrittore, occorre essere prima di tutto ciò che si è, ciò che si è nati.
William Faulkner
Lo scrittore «deve insegnare a se stesso che la più vile di tutte le cose è avere paura». Con questa frase suggestiva pronunciata durante il discorso di accettazione del Premio Nobel nel 1949, lo scrittore americano William Faulkner coglie esattamente il carattere supremo della Scrittura, ossia quello di essere un atto di immenso coraggio che consente di inoltrarsi fin dentro l’intima autenticità del reale, mettendo in gioco l’intera essenza del nostro essere. Infatti, ci vuole certamente coraggio nel compiere una ricerca del sé, senza ignorare ogni più piccolo tormento, turbamento, lacerazione; e ci vuole ancora più coraggio, forse, a trasformare poi il prodotto di quella ricerca in una narrazione, che è in ogni istante un ri-vivere, un ri-scavare, un ri-elaborare.
L’intero discorso si prefigura come un piccolo manifesto di invito alla scrittura, quella più vera e profonda, capace di esprimere le verità celate nell’animo umano e, in qualche modo, di salvare l’umanità stessa nei suoi tratti più propri. Affiora, quindi, una critica della paura, che paralizza e impedisce di guardare oltre il rassicurante velo della superficialità. Ecco perché, a suo parere,
i giovani e le giovani che scrivono oggi hanno dimenticato i problemi del cuore umano in conflitto con se stesso, che soli possono rendere buona la scrittura perché solo di questo vale la pena scrivere, sentirne l’agonia e la fatica.
La scrittura autentica è esattamente agonia e fatica, perché non è possibile esplorare i conflitti dell’Anima – della propria Anima individuale e allo stesso tempo dell’Anima comune a tutti gli uomini – senza provare sofferenza, senza sentirsi dilaniati e, appunto, senza avere una iniziale inesprimibile paura. Ma solo di quella fatica e di quella agonia vale la pena scrivere, solo se la scrittura è ricerca di sé e narrazione di sé allora ha un valore supremo, qualunque sia il contenuto della storia narrata, il genere letterario scelto, o ancora, addirittura, la finalità stessa che ci si prefigge. Ecco perché alle domande: “che cosa spinge a scrivere?” e più precisamente “per quale motivo si scrive?”, Faulkner risponde: «Nobilitare il cuore dell’uomo; vale per tutti noi: per chi cerca di essere un artista, chi cerca di scrivere semplice intrattenimento, chi scrive per stupire, e chi semplicemente fugge dai propri tormenti privati».
Se la scrittura nobilita il cuore dell’uomo, questo significa che deve caratterizzarsi come un viaggio interiore nell’Anima che in qualche modo porta a un cambiamento, una trasformazione, una rigenerazione. La vocazione che deve spingere ognuno di noi all’approcciarsi alla scrittura è proprio quella di intraprendere questo viaggio e fare in modo che la narrazione finale sia sempre – anche in modo nascosto, anche tra le righe – una intima opera di storytelling dell’Anima, che sveli molto (se non tutto) di quell’agonia e di quella fatica dello scrittore. Come per tanti altri autori così anche per Faulkner non si può prescindere dalla propria esperienza, che è il motore alla base di ogni ispirazione, anche se questa esperienza è da intendere in modo molto ampio.
Per me, l’esperienza è qualcosa che hai percepito. Può venire da un libro – una storia – che è sufficientemente vera e viva da far muovere qualcosa dentro di te. […] Non è necessario ripetere le azioni che le persone in quel libro compiono, ma se ti colpiscono come fossero vere, come fossero cose che le persone vorrebbero fare, e tu puoi comprendere il sentimento che ha spinto le persone a compierle, allora questa è un’esperienza. E così, considerando la mia definizione di esperienza, è impossibile scrivere qualcosa che non sia un’esperienza, perché tutto ciò che hai letto, hai sentito, hai percepito, hai immaginato è parte dell’esperienza.
Questa definizione, che Faulkner diede durante una lezione che tenne nel 1952, ci consegna una immagine dell’esperienza come il tutto che ci rende ciò che siamo, includendo così anche le esperienze più indirette (come appunto può avvenire attraverso la lettura di un libro), quelle più implicite, e persino quelle che restano nella sola dimensione dell’illusione, del sogno e dell’immaginazione. Ogni cosa con cui veniamo in contatto ci plasma, ci forma, ci trasforma; sta a noi cogliere quell’elemento apparentemente banale che può diventare elemento chiave, sta a noi svelare lo storytelling potenziale in ogni dettaglio, ma soprattutto quanto quel dettaglio singolo contribuisce a creare lo storytelling globale della nostra Anima. Quanto quella percezione dice di me? E cosa posso dire io di me attraverso la narrazione di quella specifica esperienza?
Tutte le opere di Faulkner, per quanto sperimentali e a tratti profondamente enigmatiche, si contraddistinguono per questa ricerca continua del sé che muove i personaggi in un iter che non è mai lineare e mai privo di sofferenze. La narrazione come viaggio è particolarmente evidente in uno dei suoi romanzi più famosi, Mentre morivo, che potremmo a buon ragione definire “un viaggio nel viaggio”. C’è un viaggio fisico – quello della famiglia Bundren per seppellire il corpo della madre appena deceduta – raccontato attraverso una pluralità di voci che, attraverso la tecnica del flusso di coscienza, sono in realtà pensieri, segreti, conflitti, paure e, in definitiva, Anime che si mettono infine completamente a nudo. Al termine del viaggio fisico, così, per ciascun personaggio si compie in maniera più o meno esplicita anche il viaggio più intimo, quel viaggio che è il fine della scrittura: ricomporre la propria storia, confrontarsi con i propri demoni e svelare la propria interiorità nel suo complesso. Il viaggio è il tema portante del romanzo e in generale di tutta l’attività di scrittura di Faulkner, perché come riflette il personaggio di Anse «il Signore le strade ce l’ha messe per viaggiare: ecco perché le ha distese tutte piatte sulla terra».
Il viaggio di ricerca del sé, che riflette il viaggio dell’autore, svela tutta la sua potenza nel tramutarsi, infine, anche in una occasione di viaggio per lo stesso lettore, che se rifiuta a sua volta la paura può permettere alle parole di scavare dentro se stesso, di risollevare interrogativi taciuti e, riprendendo la definizione puntuale di Faulkner, di vivere una specifica esperienza da cui cominciare poi il proprio personale viaggio.
Riferimenti bibliografici
W. Faulkner, Mentre morivo, trad. It. di Mario Materassi, Adelphi, Milano, 2000.
W.Faulkner, W.F. Scritti, discorsi e lettere, a cura di James B. Meriwether, trad. It. di Luca Fusari, Il Saggiatore, Milano, 2010.