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Byung-Chul Han: la società della stanchezza

Byung-Chul Han: la società della stanchezza

E’ lui il signore e sovrano di se stesso.

Egli, dunque, non è sottomesso ad alcuno se non a se stesso. In ciò si distingue dal soggetto di obbedienza. II venir meno dell’istanza di dominio non conduce, però, alla libertà. Fa si,semmai, che libertà e costrizione coincidano.

Byung-Chul Han

Nella sua secolare foga liberatrice, l’Occidente ha rimosso diversi vincoli che ancorano una società tradizionale al mondo, alla propria epoca e a se stessa. Strappato il giogo della religione, abbattuta la nozione di confine politico, ci apprestiamo a varcare l’atmosfera, diretti verso lo spazio. Tutto sembra procedere per il meglio, secondo i piani; tranne che non è così. Ben lungi dall’essere “liberata”, la società occidentale si è trasformata in un parco degli orrori, dove alla violenza inflitta da ciò che viene da fuori, si è sostituita una violenza che viene dall’interno. Questa violenza è silenziosa e si traduce in una pressione sulla nostra psiche che conduce all’esaurimento nervoso (burnout). Un termine che ci è ben noto ed è cifra della nostra epoca.

Ne parla Byung-Chul Han nel suo saggio The Burnout Society (Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Edizioni Nottetempo, 2020). Nel suo testo, il filosofo coreano descrive il processo perverso, una fioritura a rovescio, che ha condotto l’Occidente a produrre la nozione di un soggetto individuale e libero, il quale però in quanto autonomo, si ritrova ad essere praticamente costretto al costante, faticoso lavoro di “creazione” di se stesso. Ben lungi dall’essere un’attività creativa, quella di dover sorreggere costantemente il proprio stesso io si rivela uno sforzo atroce, infinitamente grave per la psiche umana, foriero di conseguenze pesanti in termini di salute mentale e stress fisico. Siamo costretti alla nostra libertà. Le grandi malattie della nostra epoca, ci dice Byung-Chul Han, non sono infatti né infezioni né epidemie, poiché manca l’Estraneo, il diverso immunologico dal quale esse dovrebbero venire. Le nostre malattie vengono dall’interno. Anche il positivo ha una sua violenza.

Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività. Queste sindromi si sottraggono a qualsiasi tecnica immunologica che miri a respingere la negatività dell’Estraneo.

Byung Chul Han La societa della stanchezza

 

La cultura occidentale si è avviata ad una seria riflessione circa l’importanza del negativo da almeno due secoli. Hegel e l’Idealismo romantico possono essere considerati i perni di una svolta di portata epocale nella maniera di concepire il ruolo del negativo nella realtà. Laddove la filosofia medievale vedeva nel negativo soltanto l’ombra del male, il Romanticismo sviluppa un’ontologia nella quale l’incontro con esso è non soltanto necessario, ma addirittura dirimente per lo sviluppo sano di una civiltà e del suo corso storico. E’ il “travaglio del negativo” che conduce ad una nuova sintesi, nella dialettica hegeliana. La tesi che Byung-Chul Han introduce nel suo testo va però ancora un passo oltre: non è soltanto l’incontro con un negativo esterno alla civiltà ad essere necessario, bensì la società stessa, per evitare di crollare su di sé in una nevrosi del positivo, dovrebbe offrire spazi affinché il negativo possa affiorare in maniera ordinata. Marcuse definiva ad una dimensione l’uomo soggetto unicamente allo stesso, ma ciò che valeva per l’ideologia capitalistica negli anni ‘60 vale oggi, a maggior ragione, in una società dove al capitalismo occidentale non fa da argine più nulla. Un tempo, si diceva, il sole sarebbe sorto da est. Oggi, con il crollo dell’Unione Sovietica, qualsiasi altro paradigma economico-sociale rispetto a quello capitalistico occidentale è venuto meno: non vi è più un est dal quale il sole possa sorgere.

Il soggetto apparentemente creatore finisce invece con lo sfruttare se stesso fino all’esaurimento, la morte, l’infarto dell’anima, come lo chiama Byung-Chul Han. Il negativo, dice Byung-Chul Han, non è un mero limite imposto sul soggetto libero, come la filosofia occidentale ha teorizzato a partire dal XVI secolo. Il soggetto che ne è privo trasforma se stesso in un mattatoio organizzato secondo ritmi industriali. Il negativo definisce ciò che noi siamo. Definiti dal negativo, o almeno anche da esso, possiamo abbandonarci semplicemente ad essere quello che siamo, senza doverci costantemente preoccupare di sorreggere ontologicamente il nostro stesso io. Un’altra società con regole diverse, un Dio, un orizzonte sconosciuto e inesplorato non sono dei semplici “no, non devi”. Il negativo definisce delle coordinate entro le quali abitare e lasciarsi andare, essere soltanto sé stessi senza dover costantemente diventare se stessi.

Quanto l’autore debba considerare alienante vivere in una società del meramente positivo lo si evince anche dalle scelte di vita del filosofo sudcoreano, del quale si sa poco. Han infatti non concede interviste, non diffonde nulla di sé sui social e non svela dati personali circa la propria vita. Di Byun-Chul Han si conosce forse soltanto l’essenziale: nato nella Corea del Sud, si trasferisce in Germania da giovane per abilitarsi all’insegnamento universitario con una tesi sulla Stimmung in Martin Heidegger. E’ cattolico; per il resto, quali siano i dettagli della sua esistenza resta un mistero.

Byung Chul Han

 

Siamo esauriti, stanchi. La devastante condizione spirituale (e morale) vissuta dall’Occidente del terzo millennio e in particolare dai giovani, trova non la propria cura, ma la propria causa, nella spinta verso più individualismo, più soggettività. Se la violenza che viene dall’Estraneo è infatti definibile, la violenza che viene dall’interno non lo è, poiché manca l’elemento ostile che dovrebbe metterci in pericolo. “Nessuno” causa di per sé burnout, ADHD e depressione. Noi soltanto siamo responsabili di noi stessi, e ciò suona rallegrante. Eppure, queste malattie sono in aumento e giorno dopo giorno aumenta esponenzialmente il numero di giovani che si tolgono la vita, o che devono ricorrere al supporto di psicoterapeuti perché lamentano di sofferenze che mai prima della nostra epoca erano state associate alla gioventù.

Inquadrato in quest’ottica si comprende allora come la spinta apparentemente liberatrice, propugnata ancora ad oggi dal liberalismo e dai movimenti culturali ad esso affini, sia del tutto errata nella propria comprensione della realtà. La società impositiva e totalitaria che costoro vogliono abbattere – la società disciplinare, di cui parlava Foucault – non esiste più già da tempo. Byung-Chul Han ci avverte invece che la società di oggi è una società di prestazione (Leistungsgesellschaft) nella quale ogni individuo è imprenditore di se stesso, ed è costretto ad esserlo. Costretto poiché, fallendo nel tentativo, si finirebbe nel nulla del proprio io incapace di essere io. Esposti come siamo alla costante competizione mediatica e alla pressione culturale del fare, del raggiungere, l’io che è soltanto un io è un io fallito. Liberandosi dal giogo di corda dell’Estraneo, l’individuo ha appeso se stesso al cappio d’acciaio del positivo.

Siamo stanchi, è vero. Costantemente pungolati dalla pressione della prestazione, dall’ansia di essere di più, produrre di più, la psiche umana vive oggi in uno stato di trauma cronico. La nostra stanchezza è una stanchezza che chiude, che uccide. Tuttavia, essa non è l’unica forma di stanchezza. Dice Byung-Chul Han nel suo libro che c’è anche una stanchezza che apre al mondo. Meno io significa più mondo, e se l’io viene meno nel momento in cui si spegne nella stanchezza, allora gli attimi in cui riusciamo a frenare la mano dal fare (Sorge, in senso heideggeriano), per fermarci semplicemente a guardare ciò che abbiamo intorno nella meraviglia, non sono soltanto intervalli tra momenti di lavoro, bensì epifanie, momenti pregni di significato e scoperta.

Non si tratta di un intervallo. Dopo la creazione, Dio designò il settimo giorno come sacro. Sacro non è, dunque, il giorno del fare-per, ma il giorno del non-fare, un giorno in cui sarebbe possibile l’utilizzo dell’inutilizzabile. Il giorno della stanchezza.

Dio il settimo giorno si riposò. Ma noi? Il messaggio di Byung-Chul Han è che un altro tipo di società, un altro tipo di stanchezza, è possibile. No, sulla terra non si realizzerà il Regno dei Cieli profetizzato dai patriarchi della cultura industriale, perlomeno non a breve, certamente non per tramite della società da loro invocata. Sembra però essere possibile godersi ciò che nel frattempo si ha intorno, poiché nella sua bellezza estranea, nel suo non conformarsi alle nostre aspettative, sembra essere già abbastanza.

Riferimenti bibliografici

Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano, 2020.

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