Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza […] e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia.
Walter Benjamin
Prima dell’invenzione della scrittura, le società memorizzavano e trasferivano informazioni oralmente, attraverso la parola, l’ascolto e il ricordo. Le storie venivano costruite dalla saggezza popolare ed erano raccontate, spesso insieme ad un accompagnamento musicale, poi tramandate sempre con la stessa struttura, lo stesso ritmo e gli stessi ritornelli. L’esempio più famoso è l’Iliade: gli aedi tramandarono per secoli la stessa storia, arricchendola con qualche dettaglio o con qualche nuovo avvenimento, finché non fu trascritta.
Questo metodo di comunicazione ha creato una cultura orale e un’organizzazione sociale molto diversa dalla stampa e dalla cultura digitale di oggi; secondo alcuni studi del sociologo Marshall McLuhan, il cambiamento nel modo di comunicare, come il passaggio dall’oralità all’alfabetizzazione, porta a corrispondenti cambiamenti nei valori e nelle credenze di una data società. Su queste tesi Walter Benjamin comincia a costruire una vera e propria teoria della lingua e della comunicazione, diventando un punto di incontro tra diverse dottrine: la sociologia di Horkheimer e Adorno incontra le discussioni di Lukács e Brecht sulle avanguardie e sulla società di massa, il misticismo teologico di Scholem e il neokantismo di Cohen e Rickert.
Nato nel 1892 a Berlino, Benjamin si laurea in filosofia; i suoi studi lo portano a confrontarsi con illustri studiosi e letterati del tempo, tanto che solo pochi anni dopo riesce a sviluppare una teoria tutta propria della lingua: afferma l’esistenza di una lingua originaria dai tratti divini, una sorta di Iperuranio del linguaggio, che si è deteriorato con l’avvento della scrittura e ancor più con la società di massa, fino a perdere il suo carattere sacrale.
La sua opera principale, The Storyteller, è incentrata sull’arte dello storytelling e le ragioni del suo declino nell’epoca moderna. All’inizio del saggio Benjamin fa notare il cambiamento epocale che la Prima guerra mondiale ha apportato alla narrazione: i soldati tornarono dai campi di battaglia completamente incapaci di raccontare le loro esperienze. La successione di eventi traumatici, insieme al netto cambiamento dello stile di vita e della partecipazione alla comunità, avevano irrimediabilmente leso le loro capacità di distinguere un evento importante da uno banale. La guerra, l’industrializzazione, la crescita della città e altri rapidi cambiamenti associati alla modernità avevano minato la comprensione e la riflessione, e l’incapacità di comunicare esperienze significative è progressivamente diventata una caratteristica della vita moderna.
Al contrario, nelle realtà precedenti non ancora colpite dalla secolarizzazione, il racconto era un elemento fondamentale della comunità: lo storyteller e l’ascoltatore diventavano la stessa persona, provando entrambi un senso di appartenenza e di coinvolgimento per la storia. Si comunicavano così solo eventi importanti, ritenuti costitutivi della società – ad esempio, un mito della fondazione, o un illustre personaggio vissuto in altri tempi che aveva profondamente influenzato le abitudini della comunità.
Attraverso la narrazione, l’esperienza collettiva di un popolo viene trasmessa da una generazione all’altra, prima in forma orale, poi in forma scritta. Cosa trasmette la storia? Su questo punto, Benjamin nota che la vera storia offre qualcosa di utile, di solito un qualche tipo di morale o consiglio che aiuterà gli ascoltatori: non “il senso della vita”, che suona troppo grandioso, ma “la morale della storia”, che è più pratico. Lo storyteller ha sempre una morale da offrire, ma con il passare del tempo perde il suo valore e la sua utilità, proprio perché la società diventa più veloce e meno capace di conservare ciò che è moralmente utile.
Assicurare all’ascoltatore una morale non significa scrivere una conclusione perfetta, chiusa ad ogni evoluzione o immaginazione: Benjamin afferma che proprio le storie con un finale aperto sono quelle “vere”, cioè quelle che suscitano riflessione. Alcuni narratori, come Leskov o Erodoto, sono dei buoni storyteller proprio perché non cercano di dare una giustificazione o una spiegazione alla storia: la storia è lì, ha una sua linea narrativa, ma la riflessione è completamente affidata al lettore.
Come afferma Benjamin in uno dei suoi saggi: “Quanto più naturale è il processo con cui il narratore rinuncia alle sfumature psicologiche, più la storia è integrata nella sua propria esperienza, maggiore sarà la sua inclinazione a ripeterla a qualcun altro un giorno, prima o poi.”
Il racconto, e specialmente la fiaba, rappresenta l’integrazione più completa di ciò che è naturale con ciò che è umano. Conserva infatti l’ambiguità dell’esistenza umana, e al contempo suggerisce una risoluzione pratica delle difficoltà che all’inizio sembrano insuperabili. Le fiabe sono tra le prime storie che ascoltiamo; attraverso le fiabe, il bambino coltiva una profonda consapevolezza del mondo naturale e impara alcuni dei modi in cui i problemi e i pericoli devono essere affrontati. Come la parabola, la fiaba promuove un tipo di saggezza pratica che può portare alla consapevolezza e alla riflessione: indica l’esistenza di qualcosa che va oltre l’apparente “fissità” del mondo materiale, e contribuisce alla felicità umana ripristinando possibilità che erano apparentemente chiuse.
Con l’avvento della stampa e la velocizzazione delle notizie, Benjamin nota un altro fenomeno che sfida sia lo storytelling classico, sia i romanzi. Questi ultimi avevano modificato la dimensione della narrazione, rendendola più egoistica: il lettore è da solo con il suo libro, e come l’autore afferma in The Storyteller, “gli viene offerto il senso della vita come un’affermazione totalizzante”, annullando qualsiasi spazio di riflessione. Allo stesso modo, le notizie e i giornali non offrono delle storie su cui riflettere, ma si limitano a riportare degli avvenimenti e la loro spiegazione fattuale, modificando significativamente la comprensione: non siamo più abituati a sentire una storia – e il termine stesso perde credibilità, diventa un “sentito dire” – ma una serie di fatti e di circostanze che non sono più narrazione, ma mera informazione. Come affermato nelle tesi di McLuhan che abbiamo citato sopra, un cambiamento nei modi di comunicazione porta ad un cambiamento della società, dei suoi valori e dei suoi atteggiamenti rispetto agli eventi.
I saggi di Benjamin sono particolarmente rilevanti anche per le discussioni sulla cultura digitale: i media continuano la demolizione dello storytelling, così come avevano fatto i giornali anni prima. Questo non significa che Benjamin abbia anticipato gli sviluppi contemporanei e, data la sua ambivalenza verso la cultura popolare, non sappiamo davvero cosa avrebbe pensato di fenomeni di comunicazione per il tempo impensabili come Internet; ciò che sappiamo sicuramente è che le sue riflessioni approfondite sulla narrazione ci aiutano a ricostruire un quadro dettagliato dell’evoluzione della società e dell’arte della parola.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Il Narratore, Einaudi, Torino, 2011.